Legge e violenza dall'illuminismo all'avanguardia Paola Ferraris Uno sguardo rivolto solo al più vicino può permettere
tutt'al più
Secondo la legge (Po zakonu)
è il titolo di un film realizzato da Lev Kuleshov con il suo
collettivo, nell'Urss del 1926, su sceneggiatura di Viktor Sklovskij
derivata da un racconto di Jack London, L'imprevisto (1906), basato a sua volta su
una vicenda accaduta nel 1900 a Latuya Bay, Alaska (London,
1906; Sklovskij, 1923a; Kuleshov, 1926; Mariniello, 1989; Galeotti,
1999): questo film muto, da poco edito in dvd, è un lascito dell'avanguardia che vede
compiersi la repressione, e a differenza del racconto concentra la
storia su di una rottura violenta e riaffermazione della legge. Dialettica dell'illuminismo. Vizi e virtù, delitti e pene di Stato. L'illuminismo è «l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro» (Kant, 1784; Adorno e Horkheimer, 1944): la soggezione ad autorità arbitrarie come divinità e sovrano sarebbe dunque superata da quando si è affermata la sovranità dell'individuo nel libero uso della ragione, e la sovranità del popolo come società liberamente regolata secondo leggi fatte da tutti e uguali per tutti. Ma, tolti di mezzo i legislatori supremi, gli illuministi si rendono conto che diventa impossibile fondare sulla sola ragione dei fini oggettivi validi ovunque e sempre per tutti; come pure distinguere oggettivamente degli impulsi e condotte "virtuosi" da altri "viziosi", giudizio che rimanda a dei fini. Resta la natura, ma «dettandoci egualmente vizi e virtù, in ragione della nostra organizzazione, o più filosoficamente ancora, in ragione del bisogno che essa ha degli uni e delle altre, ciò che ci ispira diventerebbe una misura troppo incerta per regolare con precisione quello che è bene e quello che è male» (Sade, 1795a): infatti la natura si alimenta della distruzione del vivente per riformarlo. Si ricade così sul minimo comune denominatore tra i fini umani, l'interesse all'autoconservazione, esteso socialmente ai propri beni e calcolabile: di per sé, un ritorno alla primitiva legge del più forte, perché «una sola distinzione... rende diversi gli uomini all'origine del mondo: la forza. La natura ha dato a tutti un suolo su cui abitare e da questa forza, inegualmente distribuita, dipende come se lo suddivideranno. Ma tale suddivisione potrà essere uguale per tutti se solo la forza la determinerà?» (Sade, 1797). La teoria del contratto sociale suppone che individui liberi e eguali rinuncino all'uso privato della forza, per sottomettersi alle leggi che proteggono gli interessi di tutti: ma nessuna società nasce da tale parità ideale, e «nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che ne' romanzi» (Beccaria, 1766). Il minimo comune denominatore degli interessi calcolabili per il patto sociale non può annullare in sé tutti gli interessi singolari, e «se si chiama virtù ciò che è utile alla società, isolando la definizione si darà lo stesso nome anche a ciò che è utile ai propri interessi e ne deriverà quindi che la virtù del singolo sarà spesso l'opposto della virtù della società» (Sade, 1797). Dunque una società si potrebbe reggere solo selezionando come "virtù" quegli interessi e passioni dei singoli che sono utili alla sua conservazione, quali che siano, e reprimendo tutte le altre passioni come egoiste, quindi "vizi" (Le Brun, 1986). Mandeville (1714, 1724) ha illustrato in questo senso l'utilità del dispendio aristocratico e dei bordelli pubblici: "vizi privati come pubbliche virtù" sarebbe la ricetta mercantilistica dei governi illuminati per ridurre secondo ragione di stato la repressione dei singoli. Ma questa formula aggiorna monarchia e religione senza rinunciare ad usare il loro freno morale, altrimenti Swift (1729) avrebbe visto adottare la sua Umile proposta per impedire che i bambini della povera gente siano di peso ai genitori o alla nazione, e per renderli utili alla comunità, così annunciata: si «consiglia di far ingrassare senza indugio un quarto dei bambini al disotto dei due anni, e di portarli al mercato perché siano venduti e mangiati», unendo il profitto dei poveri col piacere dei ricchi. Mentre Sade (1797) ha considerato l'alternativa alla selvaggia libertà di mercato, per la conservazione di uno stato del tutto secolarizzato: «Bisogna dunque (...) sostituire le chimere della religione con l'estremo terrore; liberate il popolo dalla paura dell'inferno, ed esso, appena distrutta quella paura, si permetterà subito qualunque cosa; ma sostituite quella paura chimerica con leggi d'inaudito rigore, destinate, peraltro, a colpire solo il popolo...». Liberato il 2 aprile 1790 dopo dodici anni di prigionia per regio arbitrio, Sade partecipa alla rivoluzione francese come a una possibilità di deviare da quell'itinerario del dispotismo illuminato: e scrivendo per la sua sezione popolare parigina una Idée sur le mode de la sanction des lois (Sade, 1792), mette in guardia contro ogni abuso da parte dei legislatori del potere confidato: essi «non hanno dunque altri diritti se non quello di sottoporvi delle idee; a voi soli appartiene il rifiuto o l'accettazione di queste idee», e più a «quella parte del popolo più maltrattata dalla sorte, e poiché è quella che la legge batte più spesso, sta dunque ad essa scegliere la legge da cui consente di essere battuta». Sade sopravvive poi per caso (un difetto organizzativo nel prelevare i condannati) al Terrore instaurato dal Comitato di salute pubblica contro tutti gli individui "sospetti", per il governo provvisorio e la sua polizia, in base alla nuova "morale politica": «Noi vogliamo un ordine delle cose in cui tutte le passioni basse e crudeli vengano incatenate, tutte le passioni benefiche e generose risvegliate dalle leggi... Noi vogliamo, in una parola, adempiere i voti della natura, compiere i destini dell'umanità, mantenere le promesse della filosofia, riscattare la provvidenza dal lungo regno del crimine e della tirannia», scrive Robespierre nel rapporto alla Convenzione nazionale del 5 febbraio 1794 (Le Brun, 1982). Robespierre, col giusnaturalismo di Rousseau, legittima l'uso dei mezzi (passioni e corpi umani) con la giustizia dei fini (Benjamin, 1920-1921), e fonda questa sulle idee di Libertà, Eguaglianza, Fraternità, finendo per doverle accreditare all'Essere Supremo, ripristinato condannando l'ateismo. Sade mostra come funzionano e dove devono portare questi fini, in Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani (Sade, 1795a). Smaschera prima di tutto la ragion di stato del teismo: «essendo il movimento inerente alla materia, l'agente necessario a imprimere questo movimento diveniva un essere illusorio (…) si è capito che quel dio chimerico, prudentemente inventato dai primi legislatori, non era nelle loro mani che un mezzo di più per incatenarci e che riservandosi il diritto di far parlare quel fantasma, essi erano capacissimi di fargli dire solo ciò che serviva a rafforzare le ridicole leggi con cui pretendevano di asservirci. (…) Smettiamo di credere che la religione possa essere utile all'uomo... Ma, si dice, il popolo ha bisogno di averne una, che lo diverta e lo freni... Voi lo temete senza questo freno: che assurdità!», per una società rivoluzionaria. L'altro freno è lo spettacolo della ghigliottina: secondo le "leggi della politica", «quale scienza umana ha più bisogno di sostenersi con l'omicidio di quella che tende solo a ingannare, che non ha per fine che l'accrescimento di una nazione a spese di un'altra? (…) L'imperatore e i mandarini della Cina prendono di tanto in tanto delle misure per far sì che il popolo si ribelli, al fine di ottenere da quelle manovre il diritto di farne un'orribile carneficina. Che quel popolo... si affranchi dal giogo dei suoi tiranni, e li ammazzerà a sua volta con ben più ragione, e l'omicidio, sempre adottato, sempre necessario, non avrà fatto che cambiare di vittima: era la gioia degli uni, diventerà la felicità degli altri.» Come alle vittime del dispotismo ministeriale e delle guerre di religione dell'Ancien Règime erano seguite quelle del Terrore: «Voi volete pane, ed essi vi gettano teste» dice Danton prima di venir sacrificato "al popolo", nel dramma di Georg Büchner (1835), che rende bene l'uso politico del risentimento dei più deboli: «Il vizio è il marchio di Caino dell'aristocrazia. In una repubblica è un crimine non solo morale ma anche politico; il vizioso è il nemico politico della libertà, ed è tanto più pericoloso per essa quanto maggiori sono i servigi che in apparenza le ha reso», Robespierre dichiara, e un amico di Danton spiega: «noi siamo viziosi, come dice Robespierre, cioè godiamo, e il popolo è virtuoso, cioè non gode...» (Horkheimer, 1936; Ferraris, 2000). Chiarisce Sade (1795a) per chi vuole intendere, che "Il legislatore, le cui idee devono essere all'altezza dell'opera cui si applica, non deve mai studiare l'effetto del delitto che colpisce solo individualmente, ma è il suo effetto globale che deve esaminare e quando osserverà in questo modo gli effetti che derivano dalla calunnia (…) egli diventa invece l'uomo più giusto e più integro se la favorisce o la ricompensa.» Saint-Just aveva proclamato, nel rapporto Sulla procedura di esecuzione del decreto contro i nemici della rivoluzione del 3 marzo 1794 che «La felicità è un'idea nuova in Europa», ma deve precisare il 13 marzo, Sulle fazioni dello straniero, che «vi offrimmo la felicità che nasce dal godimento del necessario senza superfluo, vi offrimmo come felicità l'odio per la tirannide, il piacere di una capanna e di un campo fertile coltivato con le vostre mani (…) quella di ritornare alla natura, alla morale, e di fondare la repubblica.» (Saint-Just, 1794). Sade rileva nel giuramento di difesa della proprietà richiesto dalla nuova Costituzione, che «un giuramento deve avere un effetto eguale su tutti gli individui che lo pronunciano, è impossibile che possa legare chi non ha alcun interesse al suo mantenimento, perché non sarebbe più allora il patto di un popolo libero, ma invece l'arma del forte sul debole, e quest'ultimo dovrebbe rivoltarsi senza posa contro il primo» (Sade, 1795a); e poi preciserà come finora in ogni contratto sociale «Si legiferò che ogni uomo avrebbe tenuto in pace la sua eredità, e che quello che lo avesse disturbato nel possesso di tale eredità sarebbe stato punito. Non c'era niente in questo relativo alla natura, niente che essa ordinasse, niente che suggerisse; tutto era opera degli uomini, divisi, a quel tempo, in due classi: la prima che cedeva il proprio quarto per avere il tranquillo godimento del resto; la seconda che, mettendo a profitto questo quarto, e sapendo bene che avrebbe avuto quando volesse le altre tre parti, acconsentiva ad impedire, non che la sua classe spogliasse il più debole, ma che i deboli non si spogliassero tra loro, al fine di poterli essa stessa derubare con più comodo. Quindi il furto, sola istituzione naturale, non fu bandito dalla terra, ma prese altre forme: si rubò legalmente.» (Sade, 1797). Però l'interesse non è l'unico movente di chi approfitta legalmente del più debole: «Più calpesta l'infelice, più alza il prezzo del paragone e, dunque, più alimenta la sua voluttà. Possiede dunque due veri piaceri nel frodare il debole: l'accrescimento dei suoi beni concreti e il godimento morale dei paragoni, tanto più voluttuosi quanto più le sue offese indeboliscono lo sfortunato» senza ledere gli interessi di stato (Sade, 1797). Solo Sade arriva a dire i moventi erotici dirottati nelle passioni interessate: ma il movente politico del punire oppure legittimare vizi e delitti era chiaro anche a Saint-Just, quando nel Rapporto sulle persone incarcerate del 26 febbraio 1794 (Saint-Just, 1794) ammette che «dobbiamo essere giusti; ma, invece di esserlo relativamente all'interesse privato, bisogna esserlo relativamente all'interesse pubblico». Quando sta per perdere il controllo politico di quell'interesse pubblico, nel termidoro del 1794, invoca per tutti i partiti il sacrificio a un dispotismo neutrale delle leggi: «La potenza delle leggi e della ragione giunge presto e tutti senza distinzione tremano: non ci sono più che schiavi spaventati. Se volete che le fazioni si spengano e che nessuno tenti d'innalzarsi sulle rovine della libertà pubblica con le massime di Machiavelli, rendete impotente la politica riducendo ogni cosa alla regola fredda della giustizia» (Saint-Just, 1794). Beccaria (1766) aveva trovato il minimo comune denominatore di quella regola in Dei delitti e delle pene: «perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male dev'essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto procurerebbe». Ne consegue l'efficacia della prigione perpetua più che della pena di morte: «Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. (…) moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l'uomo al di là della tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma li comincia.» In tutta coerenza, al fine di assicurare l'infallibilità della pena, Beccaria dirige e riforma l'Ufficio di Polizia di Milano, non soggetto ai tribunali ma solo al ministro plenipotenziario dell'Impero austroungarico (Beccaria, 1790): istituisce il «ruolo di tutte le persone abitanti in questa città, dal quale esattamente risulti il nome, cognome, età, patria, condizione, impiego e condotta» e ronde notturne per «perlustrare le strade, i pubblici alberghi ed i luoghi sospetti onde attrappare le persone equivoche ed impedire gli inconvenienti». Riconosce come c'è bisogno, a fianco e a sostegno della legge, dello speciale "diritto" esercitato dalla polizia, che «interviene, "per ragioni di sicurezza", in casi innumerevoli in cui non sussiste una chiara situazione giuridica, quando non accompagna il cittadino (…) attraverso una vita regolata da ordinanze, o addirittura non lo sorveglia» (Benjamin, 1920-1921). Questo diritto è sulla vita e sulla morte, ammette Beccaria (1792), «nel sentimento che, nel caso di aperte sedizioni, tumulti ed attruppamenti, possano questi essere repressi momentaneamente anche coll'uccisione dei sediziosi che facciano resistenza, giacché questa non è una pena legale di morte, ma un effetto di una vera intimazione di guerra.» Infatti «il "diritto" della polizia segna proprio il punto in cui lo Stato (…) non è più in grado di garantirsi – con l'ordinamento giuridico – gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo», primo fra tutti conservare il suo "diritto" (Benjamin, 1920-21). La storia dialettica
dell'illuminismo presenta quindi una rottura violenta dell'autorità
di monarchia e morale di diritto divino,
superate in quanto arbitrarie, e la rifondazione di una giustizia
di stato che pretende
di realizzare gli interessi razionali di tutti i singoli, usandone o
reprimendone le passioni, col realizzare gli scopi empirici della
conservazione dello stato. Ma le nuove autorità e le loro
leggi hanno perso la loro innocenza col risultare fondate solo sul
monopolio della violenza: così quando pretendono di rifondare
la società su nuovi fini assoluti (Repubblica, Patria, Virtù)
e nominarsene custodi, non saranno più a lungo credute neanche
se, come Robespierre, vi si sacrificano per prime. Società fuorilegge. Difesa delle proprie leggi o della singolarità La storia dialettica dell'illuminismo porta a «prendere in considerazione la sorprendente possibilità che l'interesse del diritto a monopolizzare la violenza rispetto alla persona singola non si spieghi con l'intenzione di salvaguardare i fini giuridici, ma piuttosto con quella di salvaguardare il diritto stesso. E che la violenza, quando non è in possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenti per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del diritto. La stessa supposizione può essere suggerita, in forma più concreta, dal pensiero di quante volte già la figura del "grande" delinquente, per quanto bassi potessero essere i suoi fini, ha riscosso la segreta ammirazione del popolo» (Benjamin, 1920-1921). Guardando alle forme sociali, Sade in Francesi ancora uno sforzo... (Sade, 1795a) ha rilevato le contraddizioni di una ragion di stato che ha bisogno di omicidii per difendersi dai nemici interni come da quelli esterni, ma non dà il diritto ai privati di disfarsi dei propri nemici: e parallelamente ha dipinto uno stato ideale, esente da ogni violenza fisica pubblica o privata (Sade, 1795b), ma pacificato mediante il dominio assoluto dell'organizzazione sugli individui, tenuti sotto tutela dalla culla alla tomba senza poter conoscere altra arte e cultura che quelle necessarie alla sopravvivenza; riducendo così le virtù a una condotta prefissata e immutabile, per evitare i vizi, in una società isolata. E il primo Beccaria (1766) aveva già visto le conseguenze dell'addomesticamento dei singoli e delle loro passioni alla pace sociale, potendo constatare che «manca nella maggior parte degli uomini quel vigore necessario egualmente per i grandi delitti che per le grandi virtù, per cui pare che gli uni vadan sempre contemporanei colle altre in quelle nazioni che più si sostengono per l'attività del governo e delle passioni». Rimane quindi da esaminare come delle società si siano sostenute per le passioni dei singoli, come e quanto abbiano fondato rapporti stabili superando la ciclicità della violenza reciproca: a cominciare da quelle società fuorilegge che esistono solo fintantoché resistono alla corruzione dei poteri di stato. Prosper Mèrimée ha
conosciuto la Corsica, e Colomba
(Mérimée, 1840) di cui rielabora la storia: «in
Corsica non si viene assassinati, come in Francia, dal primo scappato
di galera che non trova modo migliore per rubarvi l'argenteria: si
viene assassinati dai propri nemici; ma il motivo per cui si hanno
nemici è spesso molto difficile da dire. Molte famiglie si
odiano per antica tradizione, e la causa che ha originato questo odio
è stata addirittura dimenticata.» Ma rimane viva la
lotta per il potere, combattuta a colpi di omicidii e vendette, come
tra i Barricini e i Della Rebbia, padroni di terre e capi-fazione dei
loro pastori a Pietranera. Colomba Della Rebbia ha avuto il padre
ucciso, e riesce a provare che una confessione che scagionava i suoi
nemici da ogni sospetto era comprata, ma dichiara al fratello la sua
estraneità alla legge dello stato: «Credete forse, Orso,
che scherzavo quando parlavo di un assalto alla casa dei Barricini?
Sapete che siamo forti, due contro uno almeno? Da quando il prefetto
ha sospeso il sindaco, tutti gli uomini di qui sono per noi. (…)
Le toghe nere che stanno per arrivare imbratteranno un po' di carte,
diranno un bel po' di parole inutili. Non se ne caverà nulla.»
Mérimée mette a confronto le leggi dell'onore di Colomba,
di Orso francesizzato, e della sua amica inglese Miss Lydia:
quest'ultima approva la violenza privata solo per gelosia, cioè
vanità giustificata da leggi dell'amore unicamente per l'uomo
e la donna coinvolti; Orso solo per difendere l'orgoglio personale da
nemici degni di rispetto, e quindi con regolare sfida a duello; ma
per Colomba l'onore è quello della famiglia, e ogni suo membro
deve sacrificarsi per vendicarlo con ogni mezzo, su ogni persona o
bene dei nemici odiati con disprezzo. Questa legge illlegale
rende i vendicatori "banditi", ma non dalla loro società:
se per Orso «voi fate un mestiere gramo, e se non vi succede di
terminare la carriera sulla piazza che vediamo laggiù, il
meglio che vi possa capitare è di cadere in una macchia sotto
la pallottola di un gendarme», per loro è una morte come
un'altra, e «come potete essere insensibile al fascino di una
libertà assoluta in un bel clima come il nostro? Con questo
porta-rispetto (mostrava il suo fucile), si è re ovunque, fin
dove arriva la palla. Si comanda, si riparano i torti...»,
ricevendo aiuto riconoscente dalla popolazione e amore da ragazze. Un'altra società autonoma dallo stato si è dissolta solo alla fine del XX° secolo in Transnistria, tra Moldavia e Russia: composta dagli Urca espulsi dalla Siberia da Stalin negli anni '30, un loro antico detto era «C'è chi si gode la vita, c'è chi la soffre, noi la combattiamo» (Lilin, 2009). Nel raccontare la sua Educazione siberiana, Nicolai Lilin mette in rilievo come i "criminali onesti" regolavano i loro conflitti interni, mediante anziani rispettati che costringevano a dialogare fino a una pacifica soluzione: «Perché non esiste niente a questo mondo che non possa essere condiviso in modo da accontentare tutti. Chi vuole troppo è un pazzo, perché un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore riesce ad amare.» Tra i "siberiani" nemmeno l'educazione dei figli era solamente famigliare, si sceglieva un criminale anziano per aiutare a "intagliare" un giovane, che a 18 anni era ritenuto indipendente, libero di scegliere una delle attività di quella società e una moglie pure fuori. I ragazzi imparavano presto a non temere gli scontri fisici con le bande rivali né il riformatorio: la legge data loro era che «bisognava rispettare tutti gli esseri viventi, categoria in cui non rientravano i poliziotti, la gente legata al governo, i bancari, gli usurai e tutti coloro che avevano tra le mani il potere del denaro e sfruttavano le persone semplici.» Questi rapinatori e contrabbandieri in grande stile, che avevano cercato di contrastare il trasporto delle ricchezze naturali della Siberia in Russia, «per una questione di dignità, non parlano mai di soldi», e neanche se li godono in beni di consumo, spendendo solo per icone e armi. Questa virtù comporta il rifiuto di ogni corruzione esterna: blue jeans e musica americana, scritte sui muri, sesso prematrimoniale con le "proprie" donne (ma non con estranee corrotte), sono punibili fino alla morte, e gli omosessuali ritenuti infettivi vengono costretti al suicidio in carcere per non condividere gli stessi spazi. Il narratore, cresciuto orgoglioso della forza e della virtù siberiana, che regola la violenza secondo proprie leggi, deve constatare che «la nostra giustizia è stata inutile», benché esercitata senza vendetta privata: inutile a riparare il dolore dello stupro per una ragazza handicappata, e più poi per evitare che i giovani si facessero corrompere dai poliziotti russi contro i loro vecchi, dissolvendo una società che era immutabile. Queste società hanno
potuto rifiutare l'autorità dello stato, senza abolirla,
soltanto chiudendosi nella difesa del loro territorio e delle loro
leggi: quindi hanno impedito ai singoli di cambiarle dall'interno
lasciando solo la scelta tra perpetuarle tal quali, tradirle per
passare al nemico, oppure andarsene. Jan Yoors è andato Sulla strada con i rom lovara negli anni '30 (Yoors, 1967), allontanandosi giovanissimo per provare una possibilità di vita diversa, senza mai sceglierla definitivamente come unica. Quegli zingari non sono organizzati gerarchicamente per difendere l'autonomia di un territorio, le famiglie non lottano per il potere e neppure si vendicano dei nemici: «Alla fine della giornata, sbottai. Gli dissi che sarei tornato in "quel" villaggio per appiccare il fuoco ai covoni dei contadini e vendicare i torti che ci avevano fatto. Pulika ascoltò gravemente i miei astiosi propositi. Mi lasciò parlare a ruota libera, permettendomi di dare sfogo all'amarezza che gravava sul mio cuore, fin quando la futilità di quanto dicevo risultò chiara a tutti, me compreso. (…) sapevo che tutto ciò era dovuto al fatto che, dopo un'infanzia troppo protetta, mi scoprivo all'improvviso vulnerabile»; i rom imparavano fin da piccoli a non lasciarsi paralizzare dalla paura ma neanche avvelenare dall'odio. I lovara si comportavano come usufruttuari del mondo e di quel che può servire a vivere, senza prendere niente con la forza o per gusto di rapina, né lasciare eredità oltre al ricordo. La loro giustizia ha come unica pena l'allontanamento, per lo più temporaneo; le regole sono di rispetto degli individui nella vita comune, e di aiuto leale tra le diverse kumpanie, gruppi fluidi basati sulla libera scelta. Anche davanti alla morte vale solo la singolarità insostituibile delle persone: «Putzina era morto. Per i rom questa era la realtà e un verbale non l'avrebbe certo cambiata. (…) I tutori dell'ordine non riuscivano a redigere un rapporto sulla morte accidentale di quel giovane straniero che attraversava la strada. Erano esasperati dalla "incoerenza" degli zingari che, invece di rispondere alle loro domande, piangevano, singhiozzavano e gemevano». Questi lovara che avevano mantenuto autonomo l'uso del proprio tempo "astorico", avrebbero accettato di fare i conti con la storia e cambiare il loro comportamento per combattere nella resistenza antinazista, senza rinunciare alle loro singolarità fuori dalle leggi: e ritrovando quelli come Jan Yoors, che combattevano per riprendersi l'uso storico del proprio tempo (Yoors, 1971). Violenza che crea e che conserva diritto. Ciclicità o avanguardia. Le società fuorilegge che difendono il proprio territorio dallo stato, senza abolirlo, hanno mostrato di saper valorizzare le passioni dell'onore, come orgoglio individuale, di famiglia e di gruppo, fino a superare la paura della violenza, della morte, e quindi dei poteri che pretendono il loro monopolio: ma devono reprimere molte altre passioni dei singoli, dall'amore indipendente dalle regole della famiglia a quello per nuove forme di cultura. Così risultano soggette a una ciclicità astorica: se non è quella delle lotte di potere e della vendetta, rimane quella della trasmissione immutabile di regole, valori e scopi di vita. Questa rigidità al cambiamento le espone alla corruzione o comunque alla dissoluzione: anche la trasmissione del modo di vivere al margine della storia degli zingari corre questo rischio, ma finché ha per scopo un uso libero del proprio tempo, come ha sperimentato Yoors, alimenta le singolarità e rende possibili cambiamenti tanto differenti quanto lo sono le kumpanie, le famiglie, le persone, fino a superare una separazione scelta per non subire la storia. La società statali, dove la violenza ha prima creato e poi conserva il diritto reprimendo quella dei singoli, risultano soggette a una ciclicità storica: «ogni violenza conservatrice indebolisce, a lungo andare, indirettamente, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza creatrice che è rappresentata in essa. (…) Ciò dura fino al momento in cui nuove forze, o quelle prima oppresse, prendono il sopravvento sulla violenza che finora aveva posto il diritto, e fondano così un nuovo diritto destinato a una nuova decadenza» (Benjamin, 1920-1921). Il monopolio cambia di mano, cioè di contenuto, e questo detta nuove forme di diritto, oltreché di cultura, come il regime sovietico (Sklovskji, 1923b). Ci sono stati dei momenti in cui questa altalena dialettica che si mantiene mediante il cambiamento è stata tenuta in sospeso, e delle forze non monopolizzate hanno messo in movimento la forma della società. Machiavelli (1531) ha considerato che «la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella repubblica», vedendo come «tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro»: «i modi erano straordinari e quasi efferati, vedere il popolo insieme gridare contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma», però «i desiderii de' popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e' nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere a essere oppressi». Come nella repubblica di Firenze, fino al culmine della rivolta dei Ciompi (1378): ma con il monopolio degli eserciti o del denaro si faranno dei capi-popolo, da cui l'impero o la signoria. Quando il popolo non viene dirottato subito, come già da un Savonarola, a livellare tutti gli egoismi sulla propria forzata rinuncia a ogni piacere, imponendo una nuova legge di eguaglianza nel sacrificio (Horkheimer, 1936): con quella volontà di far soffrire, nascosta dalla giustificazione ideologica, che Sade ha messo a nudo ne Le centoventi giornate di Sodoma (Sade, 1785) per toglierle il potere ideale con una conoscenza oggettiva, resa responsabile. Sade (1795a) aveva chiesto ai Francesi ancora uno sforzo per mantenere viva quella «insurrezione necessaria, nella quale bisogna che il repubblicano tenga sempre il governo di cui è membro»: non la guerra di conquista in nome della libertà che, come i «disgraziati successi delle crociate», darà il monopolio della violenza a un imperatore, e a Sade di nuovo il carcere per scritti immorali. Anche Benjamin (1920-1921) ha visto come una rivoluzione possa servire al rafforzamento dello Stato, quando se ne mettono a capo delle organizzazioni gerarchizzate che «preparano già le basi di un potere forte, centralizzato, disciplinato, che non si lascerà turbare dalle critiche dell'opposizione, che saprà imporre il silenzio ed emanerà per decreto le sue menzogne» (citando Sorel, 1919), e la possibilità di interrompere il ciclo solo abolendo ogni monopolio del diritto e della forza sui singoli. Dato che questo non è ancora accaduto, si tratta di considerare se sia per cause storiche o eterne: cioè, visto che «la ragione, sia pure altissima, non dà né l'operare né il volere» (Vauvenargues, 1746), se le passioni sono immutabili; così da portare necessariamente a fondare la vita associata sulla distinzione complementare tra i sadici e i masochisti, con l'unica possibilità di cambiare parte. Quindi, se chi nasce battuto, anche quando arriva a ribellarsi e battere la forza del diritto dominante, sia destinato a lasciare usare il proprio odio e dirottare i propri desideri a favore di chi lo batterà ancora. Sade ha dedicato tutta la sua opera allo studio del cuore umano, dal punto di vista di chi ne è stato vittima, dunque senza credere in una bontà naturale e senza punto voler consolare i deboli: guardando al di là della pretesa razionalista di ridurre le passioni all'interesse, e dello spettacolo della storia che maschera l'uomo come fatto solo di orgoglio e ambizione, ha visto dietro queste gli impulsi erotici dirottati, e immaginato le loro infinite possibilità di combinazione e di evoluzione. «L'uomo ha stabilito: "questa cosa sarà virtù perché mi serve, questa invece sarà vizio perché mi nuoce". (…) del pari l'uomo si è foggiato delle leggi in rapporto alle sue meschine cognizioni, alle sue mediocri prospettive, ai suoi miserevoli bisogni. Nulla di reale in tutto ciò, nulla che non possa essere, o incomprensibile in una società a noi inferiore quanto a facoltà, o formalmente negato in una che ci superasse perché dotata di più delicati organi o di sensi in più. Come le nostre leggi, così le nostre virtù, i nostri vizi, le nostre divinità sarebbero spregevoli agli occhi di una società che fosse dotata di due o tre sensi in aggiunta ai nostri e di una sensibilità raddoppiata rispetto alla nostra!» (Sade, 1782). Anche Marx considera che «L'occhio è divenuto occhio umano allo stesso modo come un oggetto è diventato un oggetto sociale, umano, cioè prodotto da uomini per altri uomini... La formazione dei cinque sensi è il risultato di tutta la storia passata» (Marx, 1844) e così pure della storia da fare: ma né l'economia, né la politica separata, hanno dimostrato di produrre nei rapporti umani una sensibilità che porti al di là della ciclicità storica nel monopolio della violenza. Le migliori prove le ha date quell'arte che «può cessare di essere un rapporto sulle sensazioni per diventare un'organizzazione di sensazioni superiori» (Debord, 1958); non imitazione della natura nel fabbricare "l'uomo nuovo" come l'ingegneria genetica, ma sperimentazione delle capacità di immaginare e realizzare bisogni e prospettive oltre quelli della ciclicità naturale e di quella storica. Sade (1797) aveva indicato una maniera per cominciare: «Davvero, Juliette, non so se la realtà valga le chimere e se il godere di ciò che non si ha non valga cento volte quello che si possiede: eccole, le vostre chiappe, Juliette, sono sotto i miei occhi, le trovo belle, ma la mia immaginazione, sempre più brillante della natura, e più abile, oso dire, ne inventa di più belle ancora. (…) Quanto mi offrite è solo bello, ciò che io creo è sublime; farò con voi solo quanto tutti possono fare, ma mi sembra che potrò fare, con un culo, frutto della mia immaginazione, cose che gli dèi stessi non potrebbero nemmeno pensare.» E a nome di Juliette ha dichiarato quel che è riuscito a fare al di là del piacere di immaginare (dato che non si può godere se non in quanto si agisce e ci si impegna senza riserve, Vauvenargues, 1746): questo è «"ciò che si potrebbe chiamare delitto morale, al quale si arriva mediante il consiglio, lo scritto o l'azione" (…) "Tutto questo potrebbe essere pericoloso!" dice Clairwill. "Ne convengo", risposi, "ma ricordati che Machiavelli ha detto che è meglio essere impetuosi che circospetti perché la natura è una donna di cui non si può venire a capo se non provocandola"» perché collabori con le sue possibilità di evoluzione al divenire delle nostre facoltà. Sklovskij ha sperimentato il pericolo di perseguire un simile delitto morale, quando ha opposto alla domanda sociale di "forme nuove" per i contenuti della nuova legge ideologica dello stato, un unico punto fermo dell'avanguardia: che «la forma nuova genera un contenuto nuovo» (Sklovskij, 1923b). Quella forma che fa sperimentare rapporti nuovi, che non essendo «già compiuti», cioè riconoscibili e applicabili come ricette utili per scopi noti, richiedono ai singoli la nuova sensibilità necessaria a realizzarli interpretandoli. Così l'avanguardia, anche quando si afferma il suo fascino singolare, non detta leggi ma richiede il superamento delle proprie teorie e delle opere nel cambiamento che hanno stimolato. Esige solo, dall'autonomia dei singoli, la coerenza tra il consiglio e l'azione, che implica la responsabilità di conoscere le proprie passioni e svilupparle nella ricerca di nuove forme di vita. Quando poi ci si trova a subire uno stato d'eccezione che impone passioni e scopi arcaici come i più attuali, «lo stupore perché le cose che noi viviamo sono "ancora" possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all'inizio di alcuna conoscenza»: «dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d'eccezione» (Benjamin, 1940), che dovrà essere un evento, visto che il progresso non è una legge. Quando la ciclicità astorica e quella storica, che conservano il monopolio del diritto con quello della violenza, non possono più mantenersi senza associarsi al di là della loro concorrenza, come violenze inestricabilmente private e di stato; e non possono più assumersi la responsabilità neanche della comune sopravvivenza, perché hanno bisogno di imporre a tutti i singoli minacce di ogni genere che nessuno padroneggia: allora è evidente che l'opposizione non è più tra conservazione e progresso, nessun diritto che ancora comanda può governare stabilmente, e lo scontro è solo sul cambiamento. Bibliografia Adorno, Theodor W; Horkheimer, Max (1944), Dialektik
der Aufklärung. Philosophische Fragmente,
Social Studies Ass., New York; trad. it., Dialettica dell'illuminismo,
Einaudi, Torino 1966, 1997. |