Sulla storia in rapporto con l’evento

Paola Ferraris

 

La storia degli eventi è la storia stessa, ma essa può essere scritta solo a posteriori...
(Sergio Lombardo, 2002)

Introduzione

Definendo la storia come fatta, prima, dagli eventi e poi scritta per documentarli, si prende già posizione rispetto a teorie storiografiche diverse: a cominciare da quella strutturalista, derivata o meno dal marxismo con l’obiettivo di legittimare la storia tra le "scienze sociali". Questa teoria ha denunciato l’arbitrio di una histoire événementielle basata sull’unicità imprevedibile di personaggi e di azioni che hanno cambiato la cultura e la vita degli uomini; ha rivalutato invece i cosiddetti "fenomeni di lungo periodo", già studiati dall’antropologia, come le strutture parentali, i sistemi di produzione, le credenze condivise ovvero i sistemi di valori. Un simile approccio prende in esame democraticamente ogni genere di traccia umana (dall’assetto del territorio agli oggetti quotidiani) e mediante un’elaborazione statistica ne ricava tutto ciò che è comune ad una società in una sua fase. Qualora affronti le dinamiche storiche, la teoria strutturalista deriva dalle contraddizioni oggettive rilevabili nella fase anteriore le trasformazioni riscontrabili nella fase posteriore: ciò consente pure di risalire ad ipotetiche strutture originarie, o ancora di diagnosticare le probabili evoluzioni future. Questo determinismo assoluto è tuttora applicato come tecnica di produzione ideologica unificata (dopo aver servito separatamente stalinismo e capitalismo), mentre i fondatori della storia di lungo periodo, ad est come ad ovest (Mukařovský, 1936; Bloch, 1949), si sono sempre limitati ad un determinismo relativo: la conoscenza oggettiva si applica alle strutture, ma senza negare gli eventi.

Da parte sua, la teoria eventualista non nega l’esistenza di «uno sfondo ordinario e costante, che gioca da sistema fisso di riferimento... un’immagine permanente del mondo» costruita nella storia dell’umanità e rielaborata in ogni fase socioculturale: «questa immagine del mondo deve essere alquanto banale... data la sua funzione di sfondo della percezione» (Lombardo, 1982), comunque rispetto ad essa si definisce l’evento straordinario, che interrompe la continuità del tempo-storia.

Invece una storiografia che limita il proprio oggetto alle strutture comuni e relativamente costanti, se anche non ne deriva proiezioni archeologiche o teleologiche, evita ogni rapporto con gli eventi.

1. Storia degli eventi sfavorevoli

La storiografia che finora ha avuto più diretto rapporto con gli eventi è quella che non è nata dall’esercizio di una professione e nemmeno si è costituita come una disciplina scientifica: ma è derivata dall’esigenza di chi ha preso parte ad eventi storici di capire perché le possibilità che gli sembravano aperte all’inizio hanno avuto un esito sfavorevole, e la continuità della storia è stata rotta, ma il cambiamento ha prodotto un nuovo assetto che gli ex-protagonisti possono solo subire.

Così Tucidide nel V secolo avanti Cristo ha scritto La guerra del Peloponneso (Tucidide, 431-400 a.C.) dopo aver preso parte anche come stratega a un conflitto che ritiene di poter giudicare il più importante di tutta un’epoca: avendo visto Atene passare dalle grandi possibilità iniziali alla resa totale a Sparta e alla sottomissione ad un’oligarchia. Considerando gli eventi storici non come preordinati dall’alto ma risultato, incalcolabile a priori, delle azioni umane e dei loro moventi, ha cercato di conoscere a fondo questi elementi, per fare opera non piacevole ma utile in futuro ai protagonisti di altri eventi. Non alla maggior parte degli storici successivi, che eviteranno i «brutti» argomenti, come ha scritto Dionigi (citato da M.I. Finley in Tucidide, 1985), rimproverandogli di aver scelto «una sola guerra, per di più ingloriosa e sfortunata, che sarebbe meglio non fosse accaduta o (almeno) fosse stata dimenticata dai posteri». Ma Lorenzo Valla tradurrà La guerra del Peloponneso in latino nel 1450, e Thomas Hobbes in inglese nel 1628.

Machiavelli è ben noto per il suo ricorso alla storia antica quando la signoria dei Medici lo aveva emarginato dalla vita politica fiorentina: «entro nelle antique corti degli antiqui huomini, (...) dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni» (lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, in Machiavelli, 1971); così unendo «una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique», stava scrivendo Il Principe come una mossa del cavallo per saggiare subito le possibilità di ritornare alla politica attiva, e per preparare una conoscenza delle arti di governo con cui un «uomo di basso e infimo stato» possa superarle.

Ma Machiavelli ha scritto anche le Istorie fiorentine (1525), che si fermano per prudenza al 1492, ma trattano di quelle «civili discordie» che gli storici di professione avevano evitato, ed affermano: «Che il tempo a consumare i desideri della libertà non basti è certissimo: perché s’intende spesso quella essere in una città da coloro riassunta che mai la gustorono, ma solo per la memoria che ne avevano lasciata i padri loro la amavano, e perciò, quella recuperata, con ostinazione e pericolo conservavano; e quando mai i padri non la avessero ricordata, i palagi pubblici, i luoghi de’ magistrati, le insegne de’ liberi ordini la ricordano...» (Machiavelli, 1532). Considera quindi la storia come dimostrazione di possibilità apparentemente improbabili, stimolo che può provocare eventi; mentre la conoscenza del funzionamento dello status quo serve a dimostrarne i punti deboli.

Un secolo dopo, Paul de Gondi, ovvero il cardinal de Retz, ha scritto le sue Mémoires (de Retz, 1655ss) dopo il fallimento della Fronda con cui aveva tentato di contrastare l’assolutismo al suo nascere, e le sue osservazioni mirano direttamente al rapporto fra storia normale ed evento: «Ciò che causa il torpore nelle società che soffrono è la durata del male, che colpisce l’immaginazione degli uomini, e fa credere loro che non avrà mai fine. Appena intravedono la possibilità di uscirne, come non manca mai di accadere quando si è arrivati a un certo punto, sono così sorpresi, così a proprio agio e così accesi, che passano tutto d’un colpo da un estremo all’altro, e ben lungi dal considerare impossibili le rivoluzioni, le ritengono facili; e questa disposizione da sola li rende qualche volta capaci di farle». Questo era stato sperimentato con la Fronda, che era iniziata inaspettatamente da parte di un Parlamento in cui nessuno aveva idea di quel che ne poteva seguire; dimostrando l’errore di chi pretende che non è da temere un partito senza un capo.

Invece Viktor Sklovskij ha scritto nel 1923 della propria storia, appena conclusa col fallimento, rispetto ad un partito che aveva un capo: aveva infatti partecipato alla rivoluzione russa, ma aveva tentato di dirottare il treno del metodo bolscevico, quel metodo che «è uscito di casa e ha intrapreso una sua propria vita» (Sklovskij, 1923a) schiacciando metodicamente ogni creazione imprevista dell’arte come della rivoluzione. «Un popolo può essere organizzato. I bolscevichi erano convinti che il materiale non ha importanza, conta la forma che gli si dà... Volevano pianificare tutto, il sole che doveva sorgere in orario, il brutto e il bello che doveva essere preordinato in cancelleria. L’anarchia della vita, il suo substrato incosciente, il fatto che l’albero sa da sé come crescere - sono tutte cose che essi non capiscono. La proiezione del mondo sulla carta non è un errore fortuito dei bolscevichi. Fin dall’inizio essi avevano creduto che la formula combaciasse con la vita, che la vita sarebbe sostanziata dall’opera ‘spontanea’ delle masse, ma sempre secondo una formula.» (Sklovskij, 1923b). Sklovskij era un futurista, condannato come formalista: ha scritto della sua esperienza recente senza adottare alcun canone della storiografia, cercando di ideare la forma nuova con cui agire, subito, da stimolo per l’avanguardia russa ed europea a non collaborare (come tendeva a fare) all’evento programmato dei bolscevichi. Constatata la propria sconfitta e la normalizzazione dell’evento rivoluzionario, non ha scelto di immortalarsi ai posteri sacrificando se stesso e le possibilità ulteriori, ma di operare nel presente secondo La mossa del cavallo (Sklovskij, 1923c), che «non è libero: procede in diagonale perché la via diretta gli è sbarrata»; concludendo, con una favola-apologo, che non si può regolare in anticipo l’ignoto.

2. Far agire l’esperienza della storia

Con Sklovskij, il rapporto della storia con l’evento è già quello dell’avanguardia, che concepisce ogni tipo di intervento (dall’opera d’arte al manifesto alla "storia") come stimolo per eventi che possano trasformare il proprio tempo. Lo conferma, nello stesso 1923, il Manifeste Art Prolètarien firmato da Théo van Doesburg, Hans Arp, Christian Spengemann, Kurt Schwitters e Tristan Tzara (Schwitters, 1990): cioè, eccezionalmente, da un artista classificato come "neoplastico" che agiva sotto pseudonimo come dadaista (mentre qui firma van Doesburg), e da un rifiutato dal Club Dada di Berlino, come Schwitters, amico e sodale però di Raoul Hausmann, Hans Arp e Tristan Tzara. Che conoscessero o meno gli scritti coevi di Sklovskij (che potevano incontrare a Berlino dove si era temporaneamente rifugiato), agiscono per un radicale superamento delle "storie" sovietiche: «Il proletariato è una condizione che deve essere superata, la borghesia è una condizione che deve essere superata. (...) Il comunismo oggi è una causa già così borghese come il socialismo maggioritario cioè il capitalismo nuova formula. La borghesia utilizza l’apparato comunista - che non è un’invenzione del proletariato ma della borghesia - allo scopo di aiutare il rinnovamento della propria cultura in decomposizione (la Russia). Di conseguenza, l’artista proletario non combatte per l’arte né per la vita nuova a venire, ma per la borghesia. Ogni opera d’arte proletaria non è altro che un manifesto pubblicitario per la borghesia».

Quanto a fare agire la propria storia già nel presente, i protagonisti dell’avanguardia hanno operato solo per frammenti, con interventi puntuali, rimandando la raccolta di questi documenti al tempo della riflessione a posteriori: che non sempre rende giustizia al tempo dell’azione, e lascia spazio al lavoro di sistemazione degli storici professionisti dell’avanguardia detta «storica». Tra questi ultimi, la produzione culturale predilige chi sa rinchiudere gli eventi, che hanno introdotto possibilità di cambiare l’arte e la vita ancora aperte, dentro "poetiche" da archiviare o da rispolverare a piacere; così sono rare le raccolte di documenti, tra cui quella organizzata come Courrier Dada da Raoul Hausmann nel 1958 (Hausmann, 1958), dove egli prende una posizione dadaista sulla storia: «Una Storia di DADA svela il carattere di ogni Storia. La Storia non è che la pseudologia che un individuo si fa della realtà, nient’altro che una cattiva immagine dell’oggettività complessa, riflessa in un cattivo materiale. Così una Storia di DADA è permessa. Non si presenta peggio di tante opere celebri, e sarà possibile che in questa occasione essa sveli una vera partita della storia.» Una parzialità attiva è messa in gioco, da Dada prima, e da Hausmann, contro la pseudo-totalità.

Del resto Walter Benjamin, che non è stato filosofo professionale in vita, ha scritto nel 1937 in quello che può sembrare un saggio d’occasione, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico (Benjamin, 1937) che «far agire l’esperienza della storia (...) si rivolge a una coscienza del presente che fa deflagrare la continuità della storia». Rifiutando una contemplazione storicistica che «accresce il peso dei tesori che gravano sulle spalle dell’umanità. Ma non dà a quest’ultima la forza di scuoterli di dosso e quindi di farli suoi», ha precisato come «La soluzione di questo problema rimane riservata a una scienza della storia che non abbia più come oggetto un groviglio di puri dati di fatto, bensì quel gruppo definito di fili che rappresenta la trama di un passato nell’ordito del presente. (Sarebbe errato voler identificare questa trama col mero nesso di causa ed effetto. Piuttosto, questa trama è tutta di genere dialettico, ed è possibile che per secoli siano andati perduti certi fili che il corso attuale della storia riprende di colpo e quasi inavvertitamente). L’oggetto storico, sottratto alla pura fatticità, non richiede alcun apprezzamento. Esso non propone infatti analogie con l’attualità, bensì si costituisce nel preciso compito dialettico che l’attualità è chiamata ad assolvere.» Benjamin, che aveva progettato una storia di immagini dialettiche su Parigi capitale del XIX secolo (Benjamin, 1983), scrivendo ad esempio: «Non si potrebbe trarre un film appassionante dalla pianta di Parigi? Sviluppando le sue diverse configurazioni in successione cronologica e concentrando nello spazio di mezz’ora un movimento secolare di strade, boulevards, passages, e piazze?», rimette a fuoco il principio costruttivo della storia per il presente, che era stato di Machiavelli, saldandolo al "momento distruttivo" di cui l’avanguardia ha praticato la necessità.

Ma già Friedrich Nietzsche da giovane, scrivendo Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Nietzsche, 1874) aveva protestato contro la professione a cui veniva addestrato, dichiarando subito il proprio rapporto con la storia: «non saprei infatti che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale - ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo». Questo testo polemico, puntuale nei confronti del suo obiettivo, si pone come attuale per il compito dialettico di liberare l’esperienza della storia dal suo spettacolo: «Da ultimo l’uomo moderno si porta in giro un’enorme quantità di indigeribili pietre del sapere, che poi all’occorrenza rumoreggiano puntualmente dentro di noi, come avviene nella favola. (...) Il sapere che viene preso in eccesso, senza fame, anzi contro il bisogno, oggi non opera più come motivo che trasformi e spinga verso l’esterno, ma rimane nascosto in un certo caotico mondo interno, che l’uomo moderno designa con strana superbia come l’’interiorità’ a lui propria. (...) alla fine si diventa all’esterno sempre più indulgenti e comodi, e si allarga il pericoloso abisso fra contenuto e forma fino all’insensibilità per la barbarie, purché la memoria venga eccitata sempre di nuovo (...) così deve accadere all’uomo moderno, che si fa preparare di continuo dai suoi artisti della storia la festa di un’esposizione universale; è diventato uno spettatore gaudente e peregrinante, ed è caduto in una situazione dove perfino grandi guerre e grandi rivoluzioni possono cambiare a malapena qualcosa per un momento. Ancora non è finita la guerra, e già essa è convertita in carta stampata in centomila copie, già viene presentata come nuovissimo stimolante al palato estenuato dei bramosi di storia. (...) nessuno osa più arrischiare la propria persona e tutti invece si mascherano da uomini colti, da scienziati, da poeti, da politici. (...) Comunque sembra quasi che il compito sia di sorvegliare la storia perché niente ne esca se non appunto delle storie, ma nessun evento!» L’esigenza che così pone Nietzsche (e Benjamin), saranno nuove avanguardie ad attuarla.

3. Essere del proprio tempo

Apparentemente, i situazionisti hanno scritto la loro storia soltanto dopo il 1968 e lo scioglimento dell’Internazionale situazionista, con Enragés et situationnistes dans le mouvement des occupations, (I.S.,1968) e La véritable scission dans l’Internationale (I.S., 1972): ma già la stessa tempestività dei due testi fa capire che non si trattava di consegnare ai posteri quegli eventi, bensì di riconsiderare la situazione dopo le trasformazioni avvenute, che avevano chiuso alcune possibilità aprendone però altre nuove; tali da richiedere anche il superamento dell’organizzazione costituita nel 1957 (peraltro già così mutata con i tempi), dei suoi mezzi e delle ipotesi per stimolare eventi.

Inoltre, dal 1958 al 1969 i situazionisti avevano pubblicato una rivista, Internationale situationniste (I.S., 1975) che apre il primo numero facendo i conti con l’avanguardia precedente e col suo recupero, Amara vittoria del surrealismo nelle tecniche del brain-storming e nelle terapie della "libera espressione". La rivista non si limita a seppellire quella storia che è stata privata di ogni potenzialità a cambiare la vita, e a smascherare l’offerta di nuove pseudo-libertà e pseudo-eventi: raccoglie soprattutto quel che i situazionisti esperimentano per la rivoluzione della vita quotidiana, dalla costruzione di situazioni-stimolo per nuovi comportamenti, che comprende la reinvenzione psicogeografica degli ambienti urbani (opere tutte effimere, attestate solo in funzione del loro superamento) e, fin da principio, alla estraniazione dai ruoli professionali separati dell’arte, della politica e della cultura, per una pratica di vita che si confronta e condivide solo con amici che si possano stimare. L’Internationale situationniste è così una storia diretta (ma non irriflessa) delle possibilità via via sperimentate, e una sfida pubblica a fare ancora meglio: solo i rapporti che questo tipo di attività e di sfida sanno creare, potevano far scommettere ed agire per la rivolta del ’68, come hanno fatto i situazionisti quando la letargia sociale sembrava ancora totale. A posteriori, l’intera serie della rivista dimostra di essere la migliore storia situazionista: quella che più difficilmente può ricadere nelle sistemazioni riservate ai "movimenti" e ai "pensatori", attestando la possibilità di provocare eventi senza controllarli, come pure di farne la storia solo per superarli.

Guy Debord, che sarebbe notoriamente il "pensatore", se non proprio il "filosofo", dei situazionisti, ha portato avanti questa ipotesi di storia-per-l’evento fin dal suo testo teorico, La società dello spettacolo (Debord, 1967), dove l’obiettivo già immediato è di riaprire le possibilità umane di fare la propria storia, e il capitolo su «Il tempo spettacolare» è aperto da una citazione seicentesca, di Baltasar Graciàn: «Di nostro non abbiamo che il tempo, nel quale vive chi non ha neppure dimora»; a cui fa eco Shakespeare, per il capitolo sulla storia, «Oh gentiluomini, la vita è breve...». L’autore ha poi dovuto ribadire, con avvertenze alle edizioni successive, che «Occorre leggere questo libro tenendo in mente che è stato scritto con la precisa intenzione di nuocere alla società spettacolare». L’obiettivo è quindi sempre il proprio tempo, ed è per questo che Debord aggiunge nel 1988 i Commentari sulla società dello spettacolo, in cui avverte della soppressione della storia che è in atto: «Il campo della storia era il memorabile, la totalità degli avvenimenti le cui conseguenze si sarebbero manifestate a lungo. (...) In tal modo la storia era la misura di un’autentica novità, e chi vende la novità ha tutto l’interesse a far sparire il modo di misurarla.» (Debord, 1988). Fare storia degli eventi che si sono vissuti diventa così una necessità del presente (e Debord lo farà mediante montaggi di documenti in testi e in immagini cinematografiche): tanto più che scrivere di teoria per diagnosticare i tempi e le possibilità di cambiamento esige ora una nuova prudenza, come è detto all’inizio dei Commentari, «soprattutto devo stare attento a non istruire troppo chiunque».

La stessa esigenza, in una situazione diversa, informa uno dei primi libri realizzati da Debord, con Asger Jorn, pubblicato e diffuso solo per gli amici nel 1959 con il titolo di Mémoires (Debord, Jorn, 1959), «entiérement composé d’éléments préfabriqués» connessi in modo non sequenziale da "strutture portanti" di colore: si trattava allora di trasmettere come stimolo aperto l’esperienza dei primi anni di avanguardia, per il suo stesso superamento, sia ai protagonisti del 1952-53 che a quelli dell’Internazionale situazionista allora agli inizi. Due memorie autoselettive, per diversi momenti.

4. L’arte di fermare il tempo

L’avanguardia ha inteso la storia come il proprio tempo, e ha tentato di deviarne il corso prevedibile verso eventi imprevisti, esplorando e stimolando possibilità ed esigenze umane rimosse e non comprensibili dal punto di vista della sopravvivenza organizzata (e neppure del suo progresso).

Per far questo, come ha chiarito Sergio Lombardo già nei primi tempi della ricerca eventualista (Lombardo, 1982), un’avanguardia non potrà adottare né la temporalità del fare né l’eternità del non fare, bensì praticare l’arte di fermare il tempo. Non troppo paradossalmente, per realizzare le possibilità umane nel tempo, confrontandosi con la morte, risulta fallimentare la tecnologia del fare: fin dalle antiche arti meccaniche che «potevano generare solo copie dei prodotti naturali, potevano magari perfezionare la funzionalità di queste copie scegliendone le parti migliori, come sosteneva Socrate [e la genetica attuale]; oppure potevano amplificarne le prestazioni aggiungendo protesi artificiali, ma la logica... rimane quella di rendere più comodo ciò che già esiste, procrastinandone la distruzione». Infatti «la filosofia della scienza moderna riconosce solo scopi passivi rispetto al tempo: la conservazione e la riproduzione. La conservazione dell’individuo, immaginata in senso difensivo, lascia spazio al solo piacere edonistico, per cui l’arte, se vista rispetto all’individuo è piacevole decorazione. Quando viene vista rispetto alla specie, l’arte è un comportamento di corteggiamento subordinato a scopi riproduttivi [seguono esempi]». D’altra parte, «rinunciare all’azione è la strada scelta da chi vede nell’azione un incremento del movimento generatore del tempo, ed anche di chi crede che la realtà materiale sia solo un riflesso illusorio di realtà più potenti d’ordine razionale» (le perfezioni eterne della matematica, della filosofia idealistico/materialistica e della teologia): «l’uscita dal tempo è qui pensata nell’identificazione psicologica con verità eterne», da cui deriva il potere degli interpreti così come la svalutazione dell’unicità di ogni uomo nel suo tempo. Invece, fermare il tempo significa attuare «strategie di provocazione dell’evento», scettiche e sperimentali, che stimolano nell’autore come nel fruitore le potenzialità uniche di essere soggetti storici (protagonisti di una cultura capace di dare alla vita un valore superiore alla sopravvivenza).

Quanto al rilanciare le esperienze della ricerca eventualista come storia in atto nel proprio tempo, questa stessa rivista ne è un esempio, a cui si aggiungono pubblicazioni recenti (Mirolla, 2002; Lombardo, 2004; Ferraris, 2004): piuttosto che fare un prematuro bilancio dell’intervento eventualista in questo campo, si può concludere con quello che Freud ha scritto, in tempo di guerra, sulla Caducità (Freud, 1916). «Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. (...) Potrà venire un tempo in cui i quadri e le statue che oggi ammiriamo saranno caduti in pezzi, o una razza umana dopo di noi che non comprenderà più le opere dei nostri poeti e dei nostri pensatori, o addirittura un’epoca geologica in cui ogni cosa vivente sulla terra sarà scomparsa: il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha quindi bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta».

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